Il fiore proibito di Golda Meir

“È la prima volta che Albert vede gli immigrati così da vicino, si trova quasi in mezzo a loro. Zombie. Pare che la terra si sia aperta sotto ai loro piedi e che siano caduti, che abbiano continuato a cadere fino ad atterrare su quel tratto di banchina. […] Eppure non formano un gruppo compatto. Il colore uniformemente grigio dei rifugiati sui loro corpi ancora non si è posato. Indossano indumenti gualciti, ma in molti sono vestiti con gusto, alcuni hanno ancora la parvenza di aristocratici berlinesi. […] Per la maggior parte si tratta di povera gente, più facile da sottomettere, trascinata nel tracollo come tutti”. 

«Lì ci rimproveravano di essere ebrei, qui siamo costretti a essere ebrei».

 

Nel breve prologo che accompagna L’amante palestinese, sublime romanzo di Sélim Nassib edito nel 2011 da E/O e tradotto – direi quasi “interpretato”, come una canzone cucita su misura per la sua voce poetica – da Gaia Panfili, l’autore, nato a Beirut da famiglia ebrea, sostiene che “anche un bambino avrebbe capito che il sogno di creare un paese al posto di un altro era pura follia. Le strade, la gente, la terra, la Storia, la regione, tutto rendeva il sogno impossibile. Era ridicolo. Eppure, anno dopo anno, i segni si sono inspiegabilmente invertiti, lo stato ebreo è diventato realtà e loro, popolo palestinese, fantasmi. Si sono scambiati i posti, un corpo via l’altro“.

Anno dopo anno, lo scandaloso travaso di popoli si compie sotto gli occhi impotenti degli arabi palestinesi e di molti ebrei, almeno quelli estranei all’ardente visione sionista, catapultati in una “terra promessa” che li obbliga a compiere e subire un destino di violenza.

Il desiderio che si fa sangue, terra, identità è incarnato, in queste pagine, dalla potente figura di Golda Meir, pasionaria del sionismo e colonizzatrice della prima ora, e dal suo amante palestinese, il banchiere Albert Pharaon.

 

“Una storia impossibile? Quasi impossibile, costretta a svolgersi interamente in quel ‘quasi’, il piccolo spazio in cui ciò che non dovrebbe accadere accade, la stretta striscia di terra in cui sboccia il fiore proibito, la pulsione istintiva, la vita stessa”.

 

Nella violenza febbrile che divora i corpi di questi due amanti disperati, nella frenesia dei loro gesti, nella voglia di compenetrarsi si riverbera la Storia di un territorio conteso. Due corpi che diventano il terreno di battaglia sul quale si consumano le contraddizioni della Storia: vent’anni cruciali nella vita dei due protagonisti e nelle vicende di un’intera regione del Mediterraneo.

Una pagina dopo l’altra, il romanzo ribalta ogni prospettiva. Ogni luogo comune sul conflitto israelo-palestinese diventa “luogo non comune”, estraneo a ciascuno degli attori in campo, in un crescendo che vede compiersi l’impensabile: la sostituzione etnica decisa a tavolino, strategica, in una Palestina vittima dell’inadeguatezza del mandato britannico.

Nello scandagliare la passione proibita tra un uomo e una donna, L’amante palestinese si fa strumento di conoscenza del passato e del presente.

Il marito tradito confessa a Golda “nessuno può intraprendere un compito simile sperando nel benché minimo risultato. Forse lavoriamo per qualcos’altro. […] Questa pulsione animale che muove gli abitanti del kibbutz mi sconvolge più di quanto riesca a dire. Ma io non la sento, e me ne rammarico, perché è l’unico modo di sopravvivere a questo inferno“.

L’amante, a sua volta “tradito”, le preannuncia “la vostra favola avrà un ruolo che non immaginate. Ci getterete nella modernità come gamberi nell’acqua bollente. Senza volerlo risveglierete – e forse farete esplodere – la società tradizionale assolutamente soffocante alla quale appartengo“.

 

“Albert capisce che Golda non è più in lui, è lontana, l’attrazione si è spezzata. La vede nella sua realtà più vera, e lo specchio che Golda gli porge lo ferisce. Albert ha lacerato lo schermo, torna nel mondo. […] L’amante, calmissimo, gira i tacchi e si allontana a grandi falcate”.

 

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