Il Natale “distruttivo” di Marcovaldo

Credete possa far piacere ricevere in dono un martello a Natale? A meno che non la pensiate come Rita Pavone, non credo proprio! Eppure, tra le pagine più anticonformiste della nostra letteratura si nasconde qualcuno che un regalo del genere l’ha ricevuto davvero e ne ha anche fatto “buon uso”.

Per non smentire la sua proverbiale indole, Marcovaldo, l’eterno ingenuo, il sensibile manovale protagonista dell’omonima raccolta di novelle Marcovaldo ovvero Le stagioni in città – popolarissimo romanzo di Italo Calvino (Einaudi, 1963) – conclude le sue “stagionali” disavventure in pieno clima natalizio, indossando niente meno che i panni di Babbo Natale per conto della Sbav, la società per cui lavora, distribuendo regali casa per casa con l’aiuto del figlio Michelino.

 

“[…] L’unico pensiero dei Consigli d’amministrazione adesso è quello di dare gioia al prossimo, mandando doni accompagnati da messaggi d’augurio sia a ditte consorelle che a privati; ogni ditta si sente in dovere di comprare un grande stock di prodotti da una seconda ditta per fare i suoi regali alle altre ditte; le quali ditte a loro volta comprano da una ditta altri stock di regali per le altre; le finestre aziendali restano illuminate fino a tardi, specialmente quelle del magazzino, dove il personale continua le ore straordinarie a imballare pacchi e casse […]”.

 

Così, quando quando Marcovaldo – operaio di un’azienda oppressiva, commosso nell’incarnare il vegliardo dispensatore di gioie infantili – suonerà il campanello di un famoso industriale, si troverà a fare i conti con una reazione assolutamente inattesa e, peggio ancora, con un senso di amaro disincanto: non solo i suoi figli, “I figli di Babbo Natale” come titola la novella, sono assai più scaltri del padre nel riconoscere le stagionali “mascherate collettive” per quel che sono, occasioni nelle quali ciascuno si riduce a sagoma grottesca, ma Michelino, “l’elfo” del Babbo-babbeo, arriva addirittura a svelargli la “povertà” che affligge il suo coetaneo ricco, il figlio dell’industriale.

 

“[…] Era un albero di Natale illuminato da bolle di vetro di tutti i colori, e ai suoi rami erano appesi regali e dolci di tutte le fogge. Al soffitto erano pesanti lampadari di cristallo, e i rami più alti dell’abete s’impigliavano nei pendagli scintillanti. Sopra un gran tavolo erano disposte cristallerie, argenterie, scatole di canditi e cassette di bottiglie. I giocattoli, sparsi su di un grande tappeto, erano tanti come in un negozio di giocattoli, soprattutto complicati congegni elettronici e modelli di astronavi. Su quel tappeto, in un angolo sgombro, c’era un bambino, sdraiato bocconi, di circa nove anni, con un’aria imbronciata e annoiata. Sfogliava un libro illustrato, come se tutto quel che era li intorno non lo riguardasse […]”.

 

Era una povertà affettiva, dell’anima, fredda e alienante, da riscattare in un solo modo: con un martello, una fionda e un pacco di fiammiferi!

E siccome a caval donato non si guarda in bocca, il figlio dell’industriale diede a Michelino la soddisfazione di utilizzare al meglio quei doni inaspettati e distrusse per intero la sua bella casa addobbata a festa.

Tranquilli, Marcovaldo non fu licenziato per l’intemperanza del figlio, anzi, il “regalo distruttivo”, direi quasi eversivo, entrò appieno nel marketing aziendale per allietare il Natale di tanti altri ricchi bambini “poveri”.

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