L’archeologia ai tempi della guerra

“Ora la Siria è il paese dei sogni infranti, il paese dell’abbandono internazionale, vittima degli egoismi globali, dell’inconsistenza democratica, delle perversioni religiose. […]. La Siria è lì magnifica, accogliente, multicolore e struggente memoria collettiva della civiltà mediterranea colta alla sua fonte orientale”.

(Padre Paolo Dall’Oglio)

 

La guerra non si accontenta di smembrare le persone, le famiglie, le civiltà, i territori, la bellezza, la vita. La guerra chiama guerra anche nel modo in cui viene percepita, nella sua narrazione, nelle reazioni di coloro che divide o, in termini paradossali, unisce e ri-unisce sotto il proprio vessillo. In questi giorni una dolorosa polemica ha insinuato spaccature profonde tra gli archeologi del Vicino Oriente che hanno storicamente operato nella Siria di Asad. I toni sono a dir poco caustici e pretendono di tacciare come “collaborazionista” chi vorrebbe “venire a patti col dittatore” per amore del tanto anelato ritorno a quella terra, o liquidare come atteggiamento di chi “abdica alla causa” l’abbandono del Paese da parte di chi, tradito e violentato, non vuole farsi complice di chi ha innescato la barbarie. L’archeologia siriana ha già pagato il suo tributo col sangue di Khaled al-Asaad, il martire di Palmira. 

Riavvolgendo i ricordi sulla stagione che mi ha vista in Siria, giovanissima archeologa, mi imbatto in una pagina di diario che evoca una dimensione lontana, nella quale ritrovo il microcosmo della missione di scavo, le ore spese a studiare sul campo, l’atmosfera di una comunità multietnica di studenti, ricercatori e operai, ciascuno con la propria storia nella valigia.

 

Tell Mozan, Agosto 2007

“Mi alzo che è ancora notte. Per non svegliare la mia compagna di stanza mi vesto alla cieca, sforzandomi di non pensare agli scorpioni che si annidano negli angoli più bui del pavimento a calce. Fuori l’aria è fredda. Tiro su il cappuccio della felpa e cammino a passo svelto verso la cucina, attraversando le piante di fico e gli ulivi esili del patio, con le foglie d’argento che frusciano nell’aurora.

Oggi è il mio turno di “corvè”: prima colazione a base di tè e biscotti per tutti. La cucina è ancora avvolta dall’aroma speziato della sera prima, firma inconfondibile del bravo cuoco della missione. Impugno a due mani il vecchio bollitore, lo riempio d’acqua e lo adagio sulla fiamma viva del fornello grande. Quando inizierà a borbottare ci butterò dentro una manciata di profumato pot-pourri di tè e cannella. Dispongo tazze e bicchieri sul lungo tavolo di legno grezzo e tiro fuori dalla dispensa la confezione di biscotti farciti per i quali ci accapigliamo ogni mattina.

Sorrido tra me, nel silenzio di un’alba in mezzo al nulla, e all’improvviso tutto mi appare familiare: la credenza anni ’60 coi pensili giallo canarino e le maniglie un po’ appiccicose; il sibilo della teiera col suo sbuffo di vapore dolciastro; i mestoli e i paioli di rame annerito alle pareti; la spugna per i piatti e la tendina a quadri sotto il lavello; i contenitori per le spezie e il peperoncino piccante. Sì, sono di nuovo bambina nella cucina di mia nonna, nel profondo Meridione d’Italia, un attimo prima che il gallo intoni la sua sveglia sgraziata!

Spalanco la porta sul cortile e la realtà prende luce poco a poco, oltre le maglie della zanzariera. I raggi del primo sole accarezzano il profilo sinuoso del Tauro, inondando il confine turco di calde sfumature ambrate; l’aria profuma di ginestra e nardo; i pastori mattinieri s’inerpicano sulle pendici del tell con le loro mandrie docili.

Questo fazzoletto sperduto di Siria si appresta a vivere un nuovo giorno, vecchio come i millenni stratificati sotto i miei piedi, in attesa del domani”.

 

L’archeologia, a tutte le latitudini, non può chiamarsi fuori dal destino della terra che indaga. La sua visione deve essere globale, inclusiva, tanto più forte e necessaria quanto più è chiamata a contrastare l’oblio e la violenza. Proteggere i territori, sollecitare le comunità locali all’amore verso il passato perduto, al coinvolgimento emotivo e culturale non suscettibile di sole cronologie. 

 

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