Quando eravamo arabi

Sul numero del 10 novembre 1985 del settimanale Panorama compare un’intervista di Corrado Augias a Leonardo Sciascia, definito lo scrittore che “scopre l’anima araba degli italiani”. L’articolo ha come titolo, In nome di Maometto re. Il volto di Sciascia campeggia sullo sfondo di un Islam tratteggiato a colpi di arabeschi e minareti dal fumettista bosniaco Mirko Ilić (foto di copertina tratta da Un arabo che ha letto Montesquieu, a cura di Giovanni Capecchi e Francesca Maria Corrao, Editore Olschki, 2020). Il catenaccio riporta l’estratto nel quale lo scrittore afferma:

“Gli arabi ci hanno insegnato la tolleranza e il segno della loro cultura è rimasto in noi, nel nostro modo di pensare e nella lingua”.

Erano i tempi in cui il nostro Paese esercitava ancora una linea politico-culturale propria, capace di guardare con riconoscenza e visione strategica al mondo mediterraneo, sponda arbo-islamica per intenderci, cui tanto dobbiamo in termini di “pensiero e lingua”, come suggerisce Sciascia. Un’identità ancora palpabile in buona parte della Sicilia e in altri sporadici brandelli di Meridione, dove ha lasciato traccia indelebile di sé nelle vicende storiche, nel paesaggio, nella toponomastica, nel cibo, nei dialetti, in certe manifatture, tradizioni, espressioni artistiche, attitudini personali e collettive, declinate tanto nei pregi dell’ospitalità e della pazienza, quanto in una forma di indolenza patologica. La stessa mollezza che un altro scrittore siculo, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, imputava al retaggio speziato, sfacciatamente soleggiato, del riposo della controra.

L’articolo da cui ho scelto di prendere le mosse è frutto di una lunga parentesi di ricerca che lo scrittore di Racalmuto dedicò al patrimonio arabo-islamico della sua isola, che seppe trasporre magistralmente nel Consiglio d’Egitto e, ancor più, nella riscoperta del poeta arabo-siciliano per eccellenza, Ibn Ḥamdīs, del geografo Idrisi e dell’assai più popolare figura di Giufà.

In un celebre carteggio con Vittorio Bodini, Sciascia auspica la realizzazione di una biblioteca arabo-ispanica di Sicilia, nella quale far confluire l’inestimabile produzione poetica, prosaica e saggistica che, a partire dal califfato Omayyade di Siria, approdò sulle coste di al-Andalus (odierna Andalusia) e su quelle dell’Italia meridionale, accostando i poeti arabi della gloriosa Spagna islamica a quelli nostrani di Sicilia, nati, cresciuti e in seguito esiliati dall’isola per mano normanna (VI-X secolo). Il grande orientalista Gabrielli pone l’accento sulla comunanza arabo-sicula-andalusa, nella quale i motivi prettamente siciliani emergono con evidenza: ad esempio, i poeti alla corte di Ruggero II (detto “Il Normanno”) ne avallano le magnificenze dopo essersi piegati alla conquista. Si fanno cantori di luoghi precisi, ville e giardini, al contrario di quelli che, invece, scelsero o subirono l’esilio, i cui versi sono un condensato di insanabile nostalgia verso la patria perduta. Tra questi, il poeta Ibn Ḥamdīs, originario di Noto (1056) – riscoperto da Sciascia e cantato ai giorni nostri dal compianto Franco Battiato (Diwan: l’essenza del reale, 2011) – rappresenta la voce che più di tutte incarna il tema della memoria:

“Anelo alla mia terra, nella cui polvere si son consunte le membra e le ossa dei miei, come anela fra le tenebre al suo paese, smarrito nel deserto, un vecchio cammello sfinito. Vuote mi son rimaste le mani del primo fiore di giovinezza, ma piena ho la bocca del suo ricordo”.

Non solo esilio e nostalgia, temi confluiti pienamente nella letteratura meridiana di ogni tempo, ma anche una produzione capace di declinare diverse sfumature stilistiche e tematiche, incluso l’elemento sensuale, erotico e amoroso:

“Nella sua bocca spiccano perle chiuse nel cerchio della corniola. Acuminate lame di ciglia sono una spada fine a due tagli. Un solo bacio su quella bocca apre il sentiero della paura”.

(Muḥammad bin al-Ḥassan, Sull’amore)

Il viaggio alla scoperta di questo universo fascinoso ci porta sulle coste tirreniche della Calabria, quelle dei tramonti infuocati di cui pure avrà goduto l’emiro as-Simsim (al secolo, Cincimo), che tra l’846 e l’886 resse l’emirato dell’odierna cittadina di Amantea, in provincia di Cosenza (all’epoca al-Mantiah, “La Rocca”). Basta fare due passi per i vicoli del borgo e raggiungere la sommità dove sorgono i resti del castello e di quella che doveva essere l’antica moschea (l’ex Chiesa di S. Francesco d’Assisi) per percepire qualcosa di familiare: l’orecchio si tende all’eco di una lingua lontana, che nelle lettere aspirate e nelle consonanti marcate del dialetto sembra ancora mercanteggiare spezie e fichi nei mercati d’Oriente. Lingua, usi, pietanze e stili di vita che gli emiri di al-Arḍ al-Kabīra, “La Gran Terra” magnogreca, seppero trasferire alle comunità locali.

Località di “tamarri”, se le si vuole dispregiare senza tener conto che la parola deriva proprio dall’arabo tammâr, “mercante di datteri”, dunque contadino e stimato commerciante. Dall’arabo derivano i fiori di zagara (zahr), le carrube (harrub), lo zibibbo (zabīb) e persino il sorbetto (sharbat), dolce tipico a base di sciroppo di frutta ghiacciato, l’unico in grado di resistere alle temperature elevate del Medio Oriente, che i calabresi hanno mutuato nella tipica scirubetta, la granita tradizionale dell’inverno, a base di neve fresca e mosto cotto, suscettibile di varianti (tra le quali la mia preferita, al caffè!). Arabe sono anche le immancabili melanzane della dieta calabra, i gelsi, a loro volta nutrimento per i bachi da seta (pregiata produzione d’Oriente, tipica delle province di Catanzaro e Cosenza).     

Un’enclave arabo-islamica radicata nel Bacino del Mediterraneo fino a un momento drammatico: le Crociate. Sarà Federico II di Svevia, lo “Stupor mundi”, a porsi quale interlocutore di pace tra Cristianesimo e Islam. Il sovrano, che fu definito a ragione “il più musulmano dei cristiani e il più cristiano dei musulmani”, parla correntemente sei lingue (latino, siciliano, tedesco, francese, greco e arabo), fonda la Scuola Poetica Siciliana (1220-66) e incontra il re al-Malik al-Kamil, nipote del “feroce Saladino”, col quale stipula una tregua decennale.

L’incanto arabo-islamico dell’impero risplende nelle strade di Palermo, città Unesco grazie al suo patrimonio arabo-normanno. Crocevia di popoli che si scontrarono e si incontrarono lungo le vie che, ancora oggi, esibiscono il nome in triplice grafia (italiano, arabo ed ebraico). Lo stesso incanto rivive nella kasbah di Mazara del Vallo, il centro storico più arabo d’Italia, e nella città pugliese di Lucera. Qui, secondo i detrattori, l’imperatore d’Altavilla deportò intere comunità arabe al fine di sottometterle; benché i sostenitori vi riconoscano un vero e proprio “laboratorio politico-culturale”, che ancora oggi rende il territorio della Capitanata un baluardo arabeggiante. L’insediamento musulmano di Lūǧārah (Lucera), circa 20.000 anime, divenne presto un florido polo commerciale, artigianale e un centro di avanguardia nella scienza medica.

Di questo inestimabile patrimonio sembra essere sopravvissuto ben poco nella percezione identitaria attuale; ancor meno nei libri di scuola, che non recano traccia di una produzione letteraria, filosofica e artistica così corposa, italiana ed europea a tutti gli effetti. Non resta che confidare in un novello Sciascia, un intellettuale col gusto perverso di rivangare radici perdute; o in un futuro “monarca illuminato” che, al pari di Federico II, trasformi la propria tecnocrazia in una “culturocrazia”, impugni l’arma del pensiero meridiano e ci traghetti tutti oltre, su una nuova sponda di civiltà. Inshallah!

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